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«Il nostro destino è sul mare», diceva Benito Mussolini in un celebre discorso del 1926, uno dei molti dedicati alla necessità dell’espansione delle guerre coloniali per fare del Mar Mediterraneo un «lago italiano». Se la retorica ha avuto per fortuna vita tutto sommato breve, non altrettanto si può dire dell’immaginario nel quale questa trovava giustificazione: quello di un popolo di navigatori, tra gli altri, il cui rapporto con il mare ha mostrato tratti peculiari che nel corso del Novecento hanno accresciuto il proprio nitore, sino a diventare una delle forme più distintive dell’ethos italiano. Ma più che il rapporto virile con l’ignoto marittimo, è piuttosto il rapporto con la spiaggia, l’ultimo lembo di sicurezza terrestre prima dell’incertezza marittima, ad aver forgiato negli anni un originale spirito balneare e una tipica immagine cartolinesca del Belpaese, conosciuta in tutto il mondo. Che il cinema abbia avuto un ruolo fondamentale in tale processo sembrerebbe quasi scontato, ma sinora in pochi avevano considerato l’argomento con la necessaria serietà.

Si deve a Christian Uva il merito di un primo studio sistematico della spiaggia come «topos culturale» nel quale si possono rinvenire con chiarezza i caratteri di una nazione perennemente e contraddittoriamente protesa con entusiasmo verso il futuro e insieme felicemente ancorata ai retaggi dell’arretratezza. L’ultima spiaggia. Rive e derive del cinema italiano (Marsilio 2021) attraversa la storia del nostro cinema, dal fascismo sino agli anni ottanta (con un epilogo sulla produzione recente), concentrandosi su questo luogo emblematico, «simbolo, più in generale, della condizione in cui vive il nostro Paese e il popolo che lo abita» (Uva 2021, p. 189). L’obiettivo è mostrarne la specificità non solo per la comprensione dell’evoluzione dei comportamenti e delle attese collettivi, ma anche degli orizzonti politici associati ai diversi regimi di visibilità e incorniciatura delle «masse in scena» che di volta in volta affollano le immagini dei litorali. Nei film convocati, insomma, si può distinguere con chiarezza quel processo di balnearizzazione come espressione peculiare, dentro la cultura visuale ma non solo, di una più generale necessità di liberazione degli istinti, dei desideri, dei costumi che attraversa la società italiana a partire dal dopoguerra.

La balnearizzazione come condizione etico-culturale è condensata in forma esemplare non solo dal filone dell’Italian beach movie degli anni ’60, bensì nella produzione di ciascun periodo preso in esame – dalla virilità fascista all’inettitudine del miracolo economico, dal disincanto post-boom sino alla nostalgia della stagione del riflusso degli anni Ottanta. La dimensione balneare si costituisce come direttrice trasversale e cangiante nel cinema italiano, nella quale a contare davvero è la spiaggia come soglia di sospensione carnevalesca – piuttosto che il mare in quanto spazio della wilderness da domare, come avviene invece nei coevi beach movie statunitensi – «una zona franca in cui, come in nessun altro luogo, mascheramento e messa a nudo dell’identità riescono a convivere idealmente in una dialettica costante» (ivi, p. 114).

Pregio del libro è quello di far coesistere e interagire proficuamente una successione di microanalisi nel solco di macrotraiettorie che tagliano il corpus filmico italiano in direzioni eterogenee e secondo piani di grandezza diversa. A una prima e più classica scansione di ordine cronologico, che articola la successione dei capitoli, se ne affiancano infatti una di carattere storico-culturale, capace di condensare una sorta di diagnosi della civilizzazione riflessa nel prisma della condizione balneare, e un’altra più estetico-formale, nella quale emergono le strategie di rappresentazione – inquadrature, punti di vista, cromatismi, narrazioni – che nel corso dei decenni hanno restituito di volta in volta una specifica “immagine litoranea”.
Da questo percorso variegato nessuno sembra restare escluso, e già tale semplice constatazione restituisce non solo l’ampiezza del lavoro di ricerca alla base del libro, ma anche la pervasività della spiaggia come elemento decisivo nella storia del cinema italiano. Memorabili sequenze ambientate sulla linea di demarcazione tra terra e mare si trovano infatti in De Sica, Rossellini, Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini, Ferreri, così come in Risi, Lattuada, Emmer, Vanzina, sino a Moretti, Amelio, Caligari, Crialese, Garrone. L’elenco è lungo e sempre aperto. Aperto non solo in senso orizzontale, con nuovi esempi che in continuazione si aggiungono, ma anche verticale, debordando necessariamente al di là dei confini dello spazio filmico per riversarsi nella società, nella politica, nel quotidiano, nella storia. Ecco che allora non deve stupire se nel corso delle pagine si incontrano, tra gli altri, i nomi di Benito Mussolini, Wilma Montesi, Aldo Moro, Matteo Salvini. E ovviamente Pier Paolo Pasolini. Figure che, volenti o nolenti, hanno definito la loro immagine anche in relazione alla spiaggia, e di converso ne hanno definito una parte dei caratteri in quanto luogo di virilità, morte, o istituzionalità.

In questo vertiginoso caleidoscopio nominale, ci sono tuttavia dei momenti di sosta, dei film che incarnano esemplarmente i tratti di un’epoca, di uno stile, di uno snodo storico e culturale, sui quali indugiare in compagnia delle dettagliate analisi, rievocando mentalmente quelle immagini che in un certo senso sono sempre e comunque nostre, di noi tutti, punto di incontro tra immaginario collettivo e vissuto personale. Tra questi, solo per citarne alcuni, Domenica d’agosto (1950) di Emmer, La spiaggia (1954) di Lattuada, La dolce vita (1960) di Fellini, L’ombrellone (1965) di Risi, Il seme dell’uomo (1969) di Ferreri, Casotto (1977) di Citti, sino a Sapore di mare (1983) di Carlo Vanzina. Nell’arco di poco più di trent’anni si può rinvenire su e attraverso le spiagge cinematografiche il decorso degli umori nazionali, delle attese e delle speranze, dei mutamenti antropologici, sociali, economici ed epistemici che disegnano la parabola che dall’euforia ingenua del dopoguerra e dall’attesa del boom conduce al disincanto cinico della società dei consumi, seppure velato, come nel caso dei Vanzina, da una patina nostalgica verso un passato irrimediabilmente perduto.

La spiaggia, argomenta Uva, è dunque uno spazio di transizione e di sfocatura di confini: è terreno privilegiato dell’esercizio dell’infantilismo, quella regressione che affligge gli adulti italici così icasticamente restituita dalle tipizzazioni cinematografiche; è luogo di passaggio tra le stagioni della vita, sintetizzando in termini paesaggistici il corso narrativo di un’esistenza; è anche discrimine incerto tra eros e thanatos, tra vita e morte, tra sicurezza amniotica e disorientamento perturbante. La spiaggia, e forse meglio ancora la battigia, è dunque la traduzione visiva più originale di una «condizione queer» (ivi, p. 50) che attraversa il cinema italiano e che gli conferisce quella tonalità inconfondibile restituita nel mélange di scetticismo e illusione, di cinismo e umanità, di tragedia e commedia.
Analizzare le spiagge del cinema italiano significa allora interrogare l’antropologia di una nazione nell’avvicendarsi tumultuoso delle forze storiche che in così breve tempo hanno ridisegnato la geografia culturale del Paese. Di volta in volta la spiaggia è dunque un territorio di liberazione, di anticonformismo, ma anche il luogo esemplare dove si depositano le scorie materiali del boom e della modernizzazione incompiuta, così come, con un perfetto gioco di parole, arena delle vicende politiche che tradizionalmente si svolgono altrove. Gli arenili, in effetti, chiamano in causa un’ampia varietà di questioni: dall’invenzione e gestione del tempo libero alle relazioni di genere, dagli effetti dello sviluppo economico alle nuove frontiere di separazione tra derive e approdi di soggetti in fuga da guerre e povertà.

Proprio quest’ultimo punto, che riconfigura la spiaggia come confine odierno tra forme di vita distanti, testimonia una volta di più l’esemplarità di questo ambiente particolare per interrogare l’ethos di un popolo e le direttrici politiche che di volta in volta lo definiscono. La spiaggia continua infatti a giocare un ruolo decisivo nel quotidiano italiano, «tornando “in circolo” più volte e a vario livello anche nel discorso pubblico» (ivi, p. 177). Sarebbe del massimo interesse, a partire da questa eccellente archeologia balneare nell’immaginario novecentesco, immergersi ora dentro la cultura visuale del Nuovo Millennio per proseguire la riflessione sugli sviluppi e sulle evoluzioni di questa icona geo-culturale.