Description

Comédie
La patente è una commedia in un atto scritta da Luigi Pirandello nel 1917 con il titolo 'A patenti, destinata alla rappresentazione teatrale in lingua siciliana per l'attore Angelo Musco che la recitò per la prima volta il 23 marzo 1918 al teatro Alfieri di Torino e successivamente il 19 febbraio 1919 al teatro Argentina di Roma. Il dramma ripropone il tema della novella omonima composta nel 1911.

Una nuova versione della commedia in lingua italiana fu redatta tra il dicembre 1917 e il gennaio 1918.
La commedia fu pubblicata nella Rivista d'Italia del 31 gennaio 1918 e in volume dai fratelli Treves (Milano, 1920).

«...Rosario Chiarchiaro s'è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S'è lasciato crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s'è insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d'osso che gli danno l'aspetto di un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d'India in mano col manico di corno.»

È con questa maschera da menagramo che Chiarchiaro[1] si presenta in tribunale, poiché è così che lo vedono tutti quelli che terrorizzati lo incontrano facendo nel contempo gesti scaramantici; e dunque, se così deve essere, è meglio corrispondere a quello che gli altri credono che tu sia come tutti credono.

Se tu mi vedi come uno jettatore per quanto io faccia non riuscirò a cambiare la tua opinione e dunque sarò come tu mi vuoi ma che almeno possa trarne un vantaggio.

Il giudice D'Andrea, seriamente convinto che la jella non esista, vuole rendere giustizia al pover'uomo così ingiustamente messo al bando dalla società per una sciocca superstizione ed è quindi disposto a condannare il figlio del sindaco e un assessore, contro i quali s'è querelato per diffamazione Chiarchiaro a seguito degli scongiuri che quelli hanno pubblicamente e sfacciatamente fatti al suo passaggio. Ma il giudice viene a sapere dallo stesso querelante che questi è andato a fornire prove e testimonianze certe della sua capacità jettatoria agli stessi avvocati dei querelati. Dunque sarebbe lui che vuole essere condannato.

Eppure Chiarchiaro ha diversi motivi per chiedere giustizia: a causa della cattiva fama costruita su di lui la sua famiglia s'è rinchiusa in casa, le sue belle figliole non trovano più nessuno che voglia sposarle, lui stesso ha perduto il lavoro e fa la fame. Ma proprio per questo il presunto jettatore vuole che non ci siano più dubbi sulle sue doti di autore di malefici: chi li teme dovrà pagare una piccola somma per evitarli e perché questo non appaia come un'estorsione egli pretende che il giudice gli dia, condannandolo, un attestato, una patente per esercitare legalmente la sua professione di jettatore. Come il giudice con la sua laurea può esercitare la sua professione così Chiarchiaro potrà scrivere sul suo biglietto da visita: "di professione jettatore" e così, apertamente, potrà far pagare una tassa anti-jella ai superstiziosi.

Il giudice naturalmente si rifiuta, quando, proprio mentre Chiarchiaro pretende ad alta voce la sua patente di jettatore, un colpo di vento fa cadere la gabbia dove, ormai morto per la caduta, cantava un cardellino, unico ricordo della defunta cara mamma del giudice.

I giudici del collegio giudicante hanno assistito muti e sbigottiti all'accaduto: pagano in silenzio il loro obolo a Chiarchiaro, che lo accetta sghignazzando: da adesso potrà ufficialmente esercitare la sua professione.