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Testo di rilevanza socio-antropologica accompagnato dalle immagini che parlano da sé del fotografo di Bagheria Ferdinando Scianna.

[Recension de Federico Guastella, 3/4/2020]
Intoccabile in Sicilia il protocollo della tradizione religiosa. Sciascia muove dal “più grande errore di governo”, compiuto nel 1783 dal viceré Domenico Caracciolo: ridurre da cinque a tre i cinque giorni di festa “dispendiosa” che la città di Palermo celebrava in onore di santa Rosalia. Questi, che da buon riformatore era riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare i privilegi feudali, appena osò toccare i fasti di santa Rosalia, immediatamente perse il favore di tutti i ceti popolari mentre i nobili immediatamente ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia reazione.
Così è documentato l’esito del provvedimento:
“La “cultura siciliana” (quella che Giovanni Gentile caratterizza e definisce nel saggio Il tramonto della cultura siciliana) pure contribuì con alti lai, con rampogne e satire; e persino in sede storica, per tutto il secolo successivo ed oltre, non fu risparmiato al Caracciolo […] biasimo e vituperio."

Sciascia ricorda che anche “il Pitrè, cent’anni dopo, gode dello scorno di Caracciolo”, “né con minore irritazione ricorda l’episodio lo storico Isidoro La Lumia”.
"Ed è curioso vedere questi due ultimi studiosi, risorgimentali e presumibilmente massoni, levarsi in postuma indignazione contro una disposizione, motivata e giustificata, che tendeva più a ridurre, come misura di contingenza, un dispendio che ad abolire una tradizione."
Giovanni Evangelista Di Blasi, testimone diretto della vicenda, ne parla invece come “di un errore politico”.
"Quest’errore, comunque, si sono ben guardati dal ripeterlo i successivi viceré e luogotenenti, i prefetti savoiardi e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali, i socialisti, i comunisti. I cortei dei Fasci Siciliani si aprivano con le bandiere dell’Internazionale e le immagini dei santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi, tra i primi e più zelanti sostenitori delle feste religiose...”.

Segue una breve ricostruzione delle vicende attraverso cui santa Rosalia, nell’inferire della peste del 1624, si afferma come patrona di Palermo in sostituzione di Santa Cristina. Poi viene data la spiegazione dei motivi per cui i ceti popolari hanno considerato prioritario il rapporto con i santi rispetto a quello con Dio nell’infierire della peste del 1624.

Due i documenti letterari che Sciascia riporta, commentandoli: un gustoso brano di Serafino Amabile Guastella, definito “acuto studioso di costumi popolari”, tratto dal racconto Padre Leonardo, e un altro di Giovanni Verga, desunto dalla novella Guerra di santi: testimoniano la “sicilitudine” che abbraccia il fanatismo come deformazione del significato religioso.

Sciascia, in sostanza, sostiene che il modo religioso in Sicilia “ha radice in un profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica”.

“Come il materialismo fosse il carattere originale e peculiare della cultura siciliana" l’aveva già intuito Gentile, che però "fermava il suo discorso alla cultura espressa, per così dire, in opere d’inchiostro; non spingeva la sua indagine alla cultura degli strati popolari infimi”.

Proprio di questi strati popolari il barone Guastella gli fornisce dati folclorici tratti dall’opera Le parità e le storie morali dei nostri villani (1884). Le parabole da questi raccolte dalla viva voce popolare compongono, spiega Sciascia, un organico antivangelo:

“E crediamo sia difficile trovare, nell’animo e nella cultura di altri popoli, una visione della vita così rigidamente e coerentemente in opposizione al messaggio evangelico”.

A sostegno della sua tesi, riporta una parabola e una storia: la prima si riferisce all’egoismo di san Paolo, rappresentato come un capo-mafia “accorto e cinico”, la storia è quella di fra Illuminato, monaco questuante e sant’uomo che vorrebbe denunziare un assassinio, ma in nome dell’omertà viene dissuaso dal farlo: “Dio non vuole che lo denunzi”.

La conclusione di Sciascia è severamente obiettiva:

"E tutte le altre “parità” e storie contegono crudi rovesciamenti della morale cristiana, prescrivono – avallati dai santi e dal Signore in persona – comportamenti inflessibilmente asociali e antisociali: il Signore che confida ai poveri che il principale loro male è lo sbirro e che raccomanda ad Adamo di usare sulla moglie il bastone (che per questo servizio non si chiamerà più bastone, ma Ragione); san Gerlando che fa il ladro di mestiere; san Giuseppe che va a rubare fichi con Gesù Bambino per mano, san Martino la cui santità non vien meno anche se eccessiva è la sua dedizione al vino; san Francesco di Paola che a cuor leggero fa testimonianza falsa, san Cristoforo, per sua parte parricida, che consiglia a sant’Elmo di praticare il contrabbando, e così via”.

Si chiede infine Sciascia: “Che cosa è una festa religiosa in Sicilia?”. Innanzitutto essa manifesta una “esplosione esistenziale”: l’esplosione dell’es collettivo per ritrovarsi il siciliano, uscendo dalla condizione di “uomo solo”, parte di un ceto, di una classe sociale, di una città. Ma è anche rappresentazione, teatro di un dramma come nei riti della Passione in cui il tradimento, l’assassinio, il dolore di una madre si traducono in una contemplazione della morte.

L’itinerario critico tracciato da Sciascia in Feste religiose in Sicilia fa riflettere e pone rilevanti questioni.

Titre

Feste religiose in Sicilia

Éditeur

Bari, Editore Leonardo Da Vinci

Date

1965

Langue

Droits

Non libre de droits

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